Niky in Italia, Nkechiyere in Nigeria. Non si tratta di 2 persone diverse, ma della stessa ragazza sognatrice, lavoratrice e madre. Una volta presa la cittadinanza, stanca di sentire storpiare il suo nome, ha deciso di usare un altro appellativo. “Perché gli africani decidono di cambiare nome? Il mio prossimo reel sarà proprio su questo. Se lo chiedono in molti. A primo impatto potrebbe sembrare una negazione culturale delle proprie origini, ma in realtà c’è il desiderio di rendersi la vita facile. Nessuno si è mai sforzato d’impararlo veramente. Pensa che al liceo il mio lo modificavano in Nike”. La giovane, 36 anni, narra la quotidianità della sua famiglia afroitaliana sui social. Nkechiyere non trascura la politica che, nel giro di vent’anni, ha fatto passi indietro in termini d’integrazione culturale. Un tema caldo è il conferimento della cittadinanza italiana: un processo burocratico ancora ostico, spettacolarizzato solo se concessa a star dei social come Khaby Lame.
“Quando sono arrivata in Italia, a Cavaria Con Premezzo, in provincia di Varese, la gente ci ha accolti bene. Eravamo la prima famiglia nera alla fine degli anni Novanta. Ho subito pochissimi episodi di razzismo in tutto questo tempo. Di recente, però, mia sorella è stata chiamata scimmia per strada a Milano. Così, senza un motivo”, racconta Nkechiyere. La donna ha un compagno italiano, 2 figli e tutta la famiglia nigeriana con sé. Una fortuna, se si pensa a quanti nuclei familiari ha reciso l’immigrazione. Sui social sdogana anche con ironia i tabù sull’Africa e divulga usi e costumi nigeriani che mette in pratica nel quotidiano. Un giorno sogna di andare in Nigeria con tutta la famiglia. “A Natale uniamo entrambe le parentele in un perfetto mix di festeggiamenti. E sì, mia madre prepara anche le lasagne oltre a pietanze africane” spiega l’influencer. Per lei l’inclusione non deve comportare rinunce. “Il mio obiettivo è sovvertire un po’ questa cultura eurocentrica. Perché l’Occidente deve sempre sentirsi migliore?”, sentenzia.
Quello di Nkechiyere è un esempio mediatico lodevole che desidera coinvolgere un pubblico ampio, pronto a identificarsi. Una nuova generazione di italiani, di professionisti, che rivela un altro Paese possibile. “Quando la mia bambina ha visto la figlia di Fiona May in tv, mi ha detto: ‘Mamma sono io quella’. Ecco, l’obiettivo è lo stesso. Permettere a tante persone di riconoscersi”, conclude. Solo chi ha vissuto determinate esperienze può mettere al servizio degli altri la propria vita. Questo senza sconfinare, come fanno certi italiani, nel solito tokenismo; un tentativo meramente simbolico d’includere le minoranze per sviare dalle accuse di razzismo. Le cose chiamiamole con il loro nome.
Articolo di Veronica Otranto Godano