In occasione della Giornata Internazionale della Donna, l’UNICEF ha pubblicato un report aggiornato sulle Mutilazioni Genitali Femminili (MGF). Tale rapporto, denominato “Female Genital Mutilation: A Global Concern,” mostra che più di 230 milioni di donne e ragazze sono state sottoposte a queste pratiche. Rispetto al 2016, il report rileva un preoccupante aumento di questi casi, ovvero il 15% in più. Il paese con il maggior numero di mutilazioni effettuate resta l’Africa, che presenta oltre 144 milioni di casi. Nel 1995, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha redatto una classifica in merito, individuando 4 tipologie di Mutilazioni Genitali Femminili. Tra queste, la pratica più estrema e cruenta risulta essere l’infibulazione, classificata come MGF di tipo 3.
Definizione e origini dell’infibulazione
Nota anche come circoncisione faraonica, l’infibulazione consiste nell’asportazione delle piccole labbra e del glande clitorideo, seguita dalla cucitura della vulva e dalla creazione di un foro ampio appena 3 millimetri per consentire il passaggio di urina e sangue mestruale. Tale pratica è diffusa largamente in Somalia, Guinea, Gibuti, Sierra Leone, Mali, Egitto, Sudan ed Eritrea. Sono poche le informazioni sulle sue origini. Tuttavia, si sa per certo che l’infibulazione è legata alle tradizioni dell’Antico Egitto. Infatti, sia il geografo greco Strabone che il filosofo ebreo Filone di Alessandria ne fanno menzione nei loro scritti: il primo nomina sia la mutilazione femminile che la circoncisione maschile; il secondo afferma che tali pratiche avvenivano verso il quattordicesimo anno di età. Successivamente, intorno al XIX secolo, le mutilazioni genitali femminili compaiono anche in Europa. Alcuni ginecologi, come l’inglese Isaac Baker Brown, credevano che potessero curare l’isteria e la ninfomania. In seguito, nel XX secolo, i fenomeni migratori hanno fatto sì che tali pratiche venissero tristemente note anche nel resto del mondo.
Le motivazioni sociali e culturali
L’infibulazione è una pratica tutta al femminile. I soggetti coinvolti sono bambine e ragazze e sono altre donne a occuparsi dell’intervento. In genere tali figure sono le levatrici, le guide spirituali o le anziane della comunità. Di solito si effettua prima dei 15 anni ma a seconda dei paesi africani la fascia d’età è molto più bassa: in Egitto il 90% delle MGF viene effettuato tra i 5 e i 14 anni; in Etiopia e in Mali metà degli interventi comprende bambine di età inferiore ai 5 anni; in Yemen, tre quarti dei casi di MGF riguardano neonate alle prime settimane di vita. La motivazione è prevalentemente culturale. L’infibulazione è un rituale di passaggio effettuato in un contesto patriarcale: in questo modo i padri e i mariti hanno il controllo sulla sfera sessuale di figlie e mogli. Nel primo caso, una ragazza infibulata è vergine, quindi può avere un futuro nella comunità; nel secondo caso, una moglie infibulata è una donna fedele poiché non tradisce il marito e non rischia gravidanze indesiderate. Solo il consorte, infatti, può occuparsi della deinfibulazione parziale della donna in occasione del primo rapporto sessuale. Durante il parto, invece, si pratica una deinfibulazione totale per consentire la nascita del bambino. Subito dopo, si procede con la reinfibulazione per far sì che la donna torni in una condizione di illibatezza. In tale contesto, le donne che rifiutano di sottoporsi alla pratica vengono emarginate dall’intera comunità.
Le conseguenze e gli interventi contro l’infibulazione
Essendo praticata in condizioni sanitarie precarie, le conseguenze dell’infibulazione sono molteplici: le lacerazioni e i danni sono permanenti, così come lo shock subito in seguito all’intervento. Possono insorgere emorragie, cistiti, infezioni vaginali, infiammazione e ritenzione urinaria. I rapporti sessuali sono difficoltosi e/o dolorosi e durante il parto si verificano numerose complicanze che possono portare alla morte della donna o del bambino. L’infibulazione viene praticata clandestinamente anche da chi ha lasciato questi paesi per l’Europa o l’America, diventando quindi un problema globale. Nel corso degli anni, si sono messe in atto le seguenti azioni: nel 2008 UNICEF e UNFPA hanno lanciato un Programma congiunto sulle Mutilazioni Genitali Femminili che sostiene interventi volti a eliminare tali pratiche; nel 2012 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 67/146 per contrastare la diffusione delle mutilazioni e designato il 6 febbraio come Giornata Internazionale contro le MGF. La Risoluzione è stata accolta dalla Campagna Ban FGM, una coalizione formata da numerosi movimenti per i diritti umani (tra cui Non c’è Pace senza Giustizia e Equality Now). Inoltre, i paesi aderenti all’ONU si sono prefissati di eliminare le Mutilazioni Genitali Femminili entro il 2030. Tuttavia, nonostante i progressi raggiunti, i cambiamenti sono più lenti del previsto. In questo senso, poiché tali pratiche sono una vera e propria violenza, l’informazione e la prevenzione sono importanti. È essenziale che se ne parli, così come sono necessari altri interventi mirati alla debellazione del fenomeno.
Articolo di Elisa Ceccon